Fuoco aquilano di un piccolo maestro

A distanza di pochi giorni dai Fuochi dell’Aquila, Giuseppe Martella ci racconta la sua esperienza di piccolo maestro nel capoluogo abruzzese. Alle sue parole, aggiungiamo un ringraziamento speciale a Serena Gaudino, a Rosaria Caruso, ad Alessandro Gioia Chiappanuvoli, agli amici di Generazione TQ e a tutti coloro che hanno reso possibile la nostra partecipazione alla fase conclusiva di Stella d’Italia. Buona lettura.

Don Roberto non sembra don Roberto. Ha pantaloncini corti, marroni, una maglietta grigia, un paio di occhiali dalle lenti leggere e la montatura argentata e sottile. Ha pochi capelli, sale e pepe, tagliati corti corti. Quando lo saluto non mi guarda negli occhi. Mi stringe la mano con forza e non distoglie lo sguardo dai suoi cuccioli. Quanti ne saranno? Mi guardo attorno e penso che devono esserne almeno un centinaio.
Non so cosa dirgli. È la prima volta che parlerò a dei bambini (ho scelto le favole di Esopo come lettura) e quando non so cosa fare o cosa dire mi rullo una sigaretta.
«È diseducativo se fumo?»
«Vedi, qui non facciamo fumare.»
Meglio iniziare a radunare qualcuno dei piccoli.
Con Emiliano ci accordiamo così: lui passerà mezz’ora con i ragazzi delle scuole medie, io passerò il mio tempo con i bambini delle elementari. Esopo mi aiuterà. È stato il primo a scrivere favole, era uno schiavo, è riuscito a emanciparsi con le sue parole, con la sua scrittura. È un esempio.Vorrei spiegare a questi bambini che un libro, che il manufatto libro, è un tipo di tecnologia ancora molto avanzato, un contenitore pieno di parole che può essere usato come uno strumento, una cassetta degli attrezzi che vale la pena di aprire quando qualcosa non funziona, o non si capisce, per provare qualche riparazione di senso. Un oggetto che se cade, a differenza di uno smartphone, non si rompe.

I ragazzi che aiutano don Roberto a tenere a bada questa nidiata di aquilotti dispongono delle panche in cerchio, sotto un albero. Prendo una panca anche io, butto gli occhi tutt’attorno: quattro o cinque bambini, vicino a me, hanno fatto nascere una stella marina da un grumo di pasta di sale. Hanno usato due rondelle ricavate da una carota per darle un paio di occhi, le hanno inciso un lungo sorriso con un coltello.
Rompo tutti gli indugi quando vedo che i bambini si sono seduti. Alzo il braccio con la copia delle favole che ho comprato per l’occasione.
«Ragazzi, sapete cos’è questo oggetto?»
Sì che lo sanno. Sanno anche chi era Esopo, sanno la differenza tra una favola e una fiaba. Sanno che la volpe è furba, che la formica è previdente, che un elefante ricorda tantissime cose. Ma non sanno cosa voglia dire la parola tenace, né cosa significhi esattamente l’aggettivo bisbetica. E mi chiedono il significato di queste parole dopo aver finito di leggere la favola.


Mi sono accorto che se toccano con mano il libro, se lo frugano con gli occhi e lo sfogliano, lo annusano anche, si accendono di curiosità. Per questo ho chiesto loro di leggere una favola a caso.
All’inizio recalcitrano. Poi la cosa sembra interessarli, e dopo tre o quattro favole si levano in aria scudisciate di braccia a chiedermi: «Io, io! Posso leggere? Posso leggere?»
Cosa posso fare? Non voglio dire di no, vorrei far leggere tutti. È importante il loro interesse, la loro apertura, non voglio frustarla, devo alimentarla in qualche modo. Penso che se qualcuno di loro provasse a usare le proprie parole per riassumere una delle favole appena lette, capirebbero la bellezza di creare qualcosa di nuovo anche con parole vecchissime, non proprie. E funziona.

Ma il tempo passa. Li ascolto leggere, guardarsi attorno e sorridere per un tempo maggiore della mezz’ora che avevamo concordato (alla spicciolata, intanto, alcuni genitori trafugano via dei bambini). Come posso fare? Gli chiedo se vorranno leggere quel libro anche dopo che sarò andato via, decido quindi di regalargli la copia di Esopo. Molte testoline annuiscono, dicono di sì, dicono che va bene.
Gli propongo anche di provare a scrivere delle brevi rappresentazioni teatrali dalle favole che gli sono piaciute di più, e di metterle in scena. Don Roberto mi ha detto che si occupa lui stesso della revisione dei copioni; approva l’idea.

E allora niente, devo andare via. Li saluto tutti agitando le mani e le braccia, non sia mai che me ne sfugga qualcuno. Saluto don Roberto, ringrazio Rosaria (il ponte organizzativo tra Roma e L’Aquila), e imbocco la salita che mi riporterà al cinema Don Bosco. Posso accedere la sigaretta che ha aspettato (lei sì più educata di me) per tutto il tempo dentro il taschino della camicia.
C’è ancora sole, ce n’è tanto. Non sono ancora le cinque del pomeriggio ma c’è ancora caldo. Passo dopo passo ho quasi raggiunto il cinema (tutto intabarrato, con il cancello chiuso, costretto da travi all’immobilità più sterile) che mi accorgo di un piccolo temporale alle mie spalle. Ma non è acqua, non ci sono nuvole. Sono i bambini, sui sedili posteriori delle macchine dei loro genitori. Mi salutano. Ora agitano anche loro le mani e le braccia. È un temporale perché quei cinquanta cuccioli, quei cinquanta aquilotti che ho avuto attorno a me per poco meno di un’ora, ora sono tutte saette, lampi di allegria. Li invidio, penso che l’allegria è rumorosa.

Ho avuto davanti a me, intorno a me, un po’ del futuro dell’Aquila. Devo ricordarmi di ringraziarli. Sono stati loro i miei piccoli maestri.

Giuseppe Martella

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